Barana: "Lo Scudetto? 40 anni di retorica ingenerosa e svilente, quel Verona era fortissimo"

Cambiamo narrazione. Ridiamo allo scudetto del Verona il lampo di verità che merita quella squadra, il club, ma anche la città di Verona. Il fatto è che, 40 anni dopo, è diventata insopportabile la solita, pigra e abusata retorica del “miracolo”, del “Davide contro Golia” in salsa calcistica anni Ottanta. Neanche il Verona fosse una squadra di scappati di casa in gita premio che ha fregato per una botta di culo i giganti. Nemmeno fossimo passati di lì per caso e solo grazie agli Dei e alla loro buona e un po’ pelosa concessione ce l’avessimo fatta.
Intendiamoci, quello scudetto è un’impresa unica nella storia del calcio mondiale, figlia di un calcio più democratico che non c’è più eccetera. Però…c’è un però grande come una casa: quel Verona era un grande club (già nel 1982-83 fummo in lotta per il titolo) ed era forte, fortissimo, con 3 fuoriclasse (Briegel, Elkjaer, Fanna) e 4 campioni (Tricella, Di Gennaro, Galdersi, Marangon) attorno a ottimi o buoni giocatori. Guidati da un allenatore tecnicamente fenomenale e dal carattere fortissimo.
Ma prendiamo la squadra. Elkjaer e Briegel erano tra i primi cinque-sei giocatori del mondo: Preben era arrivato in semifinale con la Danimarca nell’Europeo 84 e sarebbe entrato nella top 11 del Mondiale 86, ed è stato secondo (1985) e terzo (1984) al Pallone d’Oro. Briegel ha fatto due finali di Coppa del Mondo. Fanna oggi guadagnerebbe 5 milioni di euro l’anno: all’epoca, con Bruno Conti e Littbarski, era la miglior ala europea (Causio era a fine carriera e Donadoni agli inizi).
Infatti, Pierino, con la Juve non era sempre stato comprimario, come si racconta con svogliatezza: dello scudetto bianconero 1981-82 era stato titolare e protagonista, e contribuì parecchio anche a quello del 1980-81. Pure Galderisi in bianconero disputò una stagione importante. E Marangon aveva fatto campionati di vertice con Napoli e Roma. Lo stesso Di Gennaro viene a Verona perché chiuso da un certo Antognoni, non da Gigi il Puzzone. E Tricella, sebbene non fosse Scirea (che però era già al tramonto), a metà anni 80 era il migliore (Baresi esploderà sul serio poco dopo).
Finiamola, insomma con la storia degli “scartini”, che sembra che siano venuti a giocare da noi quelli del dopo lavoro ferroviario. Il Verona, all’epoca, era club danaroso grazie alla Canon, quindi capace di andare a prendersi i calciatori di prima fascia (se non fosse venuto Briegel, tra le opzioni c’era Lothar Matthaus, futuro Pallone d’Oro e Campione del Mondo), non gli “scartini”.
In tutto questo c’è Osvaldo Bagnoli. Uno mai raccontato a sufficienza e come meriterebbe. Uno che, per la solita pigrizia intellettuale e giornalistica, si ama descrivere come un “sempliciotto” che “non parlava” e si limitava a mettere i giocatori in campo. Prendete la citazione evergreen “el terzin fa el terzin, el median fa el median…” ecc, contestualizzata spesso a minchiam. Infatti messa così sembra che potesse allenare anche Marietto lo sparapalle.
Bagnoli invece è stato un tattico sopraffino, “avanti anni luce”, come ha detto rendendogli giustizia Beppe Bergomi. Walter Zenga, quando gli chiesi di lui, s’illuminò radioso, e sì che i due – entrambi caratteri forti – hanno avuto un rapporto tormentato, ma intenso. Bagnoli è stato il primo in Italia a fare il 3-5-2 (ma all’epoca sui mass media non veniva chiamato così). Ed era, a modo suo s’intende, un comunicatore: “Parlava tantissimo con i singoli calciatori”, mi ha confidato Volpati.
Ed era un duro, un uomo di nervo e polso, una sorta di Muorinho ante litteram con la stampa: Elkjaer mi raccontò con quale carisma e rabbia si prese la squadra sulle spalle quando i mass media, esaurita la menata della squadra simpatia, iniziarono a mettere pressione e a gufare: fatevi raccontare come Bagnoli, per proteggere i suoi ragazzi, a un certo punto iniziò ad “accogliere” i giornalisti nazionali davanti ai cancelli di Veronello. Carisma e leadership a chili.
Sarebbe ora di dare a Cesare quel che è di Cesare, vale per quella squadra e per il suo allenatore. La retorica che sentiamo da 40 anni, anche e soprattutto in buona fede, è ingenerosa, svilisce, riduce, non accentua. Parlare e scrivere di “favola” e “miracolo” è liquidatorio. Passi per la stampa nazionale, che tratta i piccoli come reietti o intrusi, ma purtroppo a un certo racconto abbiamo contribuito anche noi a Verona. La verità è che quel Verona era un grande club, società e squadra. Sì, anche noi siamo stati grandi del calcio per un periodo. Dobbiamo ricordarlo, raccontarlo ed esserne orgogliosi.