I GOL PIU BELLI DELLA STORIA | Fanna e il gol pazzesco al Napoli: "C'era tutto me stesso"

Si dice che il 7 sia il numero che rappresenta la magia. Secondo i pitagorici racchiudeva lo spazio, il tempo e l’universo in movimento. Lo spazio è il rettangolo di gioco, il tempo è quello di una corsa, di uno scatto, di un controllo orientato a saltare uno o più avversari. Con il sette sulle spalle, Pierino Fanna riportava la magia sui campi da calcio. Faceva sparire e ricomparire il pallone tra una sterzata e l’altra. Come un’atleta prima della gara dei cento metri alle Olimpiadi o come uno sciatore abile a schivare i paletti nello slalom, Fanna percorreva l’intero campo evitando qualsiasi avversario che avesse l’ardire di provare a fronteggiarlo, sempre con la palla a pochi centimetri dai piedi. Sono queste le caratteristiche che descrivono la fuga verso la vittoria, come la chiama lui, ovvero il secondo gol al Napoli in quella magica serata del 1983. Davanti ad una tazza di caffè, l’ala destra ripercorre quegli istanti con dovizia di particolari. I ricordi scorrono nel suo sguardo azzurro. Parte così la nostra chiacchierata, dove emerge una vena di malinconia e nostalgia per un calcio che non c’è più.
Fanna, il 2 gennaio del 1983 è la data del suo storico gol al Napoli. Ci racconti le emozioni di quel momento e come si pensa un capolavoro del genere.
Quell’anno eravamo una grande squadra, mister Bagnoli ci aveva trasmesso una mentalità da vincenti. Non dovevamo avere paura di nessuno e giocare sempre a viso aperto. L’elemento dell’incoscienza ci caratterizzava. Avevamo passato l’ultimo dell’anno a Napoli, eravamo sul lungomare, la città si illuminava di continuo per gli interminabili fuochi d’artificio. Sembrava Beirut. Il 2 c’era la partita. Eravamo euforici perché venivamo da un girone d’andata bellissimo nel quale avevamo fatto grandi cose. Siamo andati in vantaggio con un mio gol, anche un po’ casuale, mi sono fatto trovare pronto sul secondo palo e mi è arrivata la palla giusta. Bagnoli voleva che, quando attaccavamo, riempissimo l’area di rigore avversaria con almeno cinque giocatori. Passati in vantaggio, abbiamo sofferto. A livello tattico, facevamo finta di chiuderci per poi sfruttare gli spazi in contropiede. Tricella era il primo che dettava le uscite. È stato l’anno in cui ho fatto più gol, giocando da seconda punta mi sentivo libero di muovermi.
Venendo alla seconda rete, Garella respinge fuori dall’area sulla sinistra, mi trovo a circa dieci metri fuori dalla nostra area, e da lì inizia quella che io chiamo la fuga per la vittoria. Quando avevo spazio mi esaltavo. Salto i primi due avversari e faccio cinquanta metri sulla fascia. Rimaneva da dribblare Krol, ero solo e non c’era nessuno dei miei compagni in appoggio. L’ho puntato. Prima sono andato all’interno, poi me la sono rimessa sul sinistro e mi ha chiuso il tiro sulla destra. Sono rientrato e ho tirato di sinistro, la palla è finita sotto le gambe di Castellini. Quello è stato l’ultimo sforzo fisico, ero stremato! Questo gol rispecchia e racchiude tutte le mie caratteristiche, ci sono sregolatezza e fantasia, corsa, velocità, tecnica. Tra l’altro, un gol molto simile lo feci anche l’anno dopo contro il Pisa, in una nostra vittoria per tre a zero.
A proposito di grandi gol, due domeniche fa Ngonge ha dipinto una perla di rara bellezza che ha acceso la memoria dei tifosi del Verona. Che ne pensa?
Sono stato sempre entusiasmato da questi gesti tecnici, la rovesciata non l’ho mai avuta nel mio repertorio. Un gesto che rappresenta follia, estrosità, classe, non è da tutti. Quella di Ngonge era ancora più difficile perché era in mezzo a due/tre giocatori, è stato un gol istintivo. Davvero un capolavoro.
Andando indietro nel tempo ai suoi esordi, come è avvenuto l’approdo all’Atalanta?
È stata un’avventura. Vengo dall’alto Friuli, dalla parte est al confine con la Slovenia. Fino ai dodici anni non ho visto un campo di calcio in piano, ero in un paesino sperduto tra le valli. La passione per il pallone mi ha costretto a divertirmi nelle difficoltà. Ha rappresentato il mio percorso di crescita. Nel 1970 i miei genitori si sono trasferiti in un paesino vicino Cividale, ho conosciuto lì i primi campi in piano. È successo tutto molto rapidamente, sono venuti a vedermi degli osservatori dell’Udinese. L’anno dopo ho giocato negli esordienti ad Udine. A fine anno sono passato all’Atalanta. A settembre del 1972 ho lasciato la famiglia e sono andato a Bergamo in collegio. I primi due anni sono stati durissimi, avevo nostalgia di casa e ci tornavo solo a Natale e a Pasqua. Mi hanno dato forza la passione e l’incoscienza. Sono arrivato a Bergamo bambino e ne sono uscito che ero un uomo. L’Atalanta mi ha accompagnato a livello psicologico con i dirigenti e con gli allenatori. Devo tantissimo a quella società e alla famiglia Bortolotti, è stata una seconda famiglia alla quale mi sono affezionato. Il primo anno di serie B non partivo titolare, nel corso della stagione si infortunò un mio compagno di squadra e presi il suo posto. C’eravamo io e Cabrini. Arrivammo dietro il Vicenza di Paolo Rossi e agli spareggi centrammo la promozione in A.
Quell’estate passa alla Juventus. Che difficoltà ha incontrato alla sua prima avventura in una grande squadra? Quali momenti ricorda con più piacere?
La Juventus mi aveva comprato l’estate prima. Avevamo fatto un’amichevole Atalanta-Juve. Feci diventare matto Gentile, non riusciva a starmi dietro. Stava per finire il primo tempo, dopo una mia finta arrivò da dietro e mi falciò. Avevo la caviglia gonfissima, sono stato fuori un mese. Ero in lacrime, è venuto Tardelli a consolarmi. Mi disse: “ dai che il prossimo anno vieni da noi”.
Arrivavo alla Juve con grandi ambizioni ed aspettative. Il primo anno ai bianconeri lo ricordo come il più bello. In panchina c’eravamo io, Cabrini, Virdis. Quest’ultimo e Boninsegna avevano dei problemi fisici, mi trovai a giocare con Bettega. Causio agiva sulla destra. Ho fatto belle partite con gol importanti, come quelli alla Roma e a Pescara. A fine anno vincemmo lo scudetto. Facemmo anche la semifinale di Coppa dei Campioni. La mia prestazione contro il Bruges è rimasta impressa nella memoria dei tifosi bianconeri, feci una grande partita. Gli anni successivi le cose iniziarono a girare nel verso sbagliato. Avevo perso fiducia. L’ultimo anno con la testa ero già altrove. Ma anche nelle difficoltà sono stato decisivo: a Catanzaro, subentrato nel secondo tempo, ho causato il rigore che ci ha portato un altro scudetto. Due mesi dopo mi sono trovato a Verona.
Verona, appunto. Lo scudetto. Ci parli del suo rapporto con Bagnoli e di come si arriva a costruire un’impresa così inaspettata.
Bagnoli era un uomo silenzioso ma dalla grande personalità. Già dal ritiro a Cavalese ci faceva capire come dovevamo giocare. Voleva che scendessimo in campo alla stessa
maniera contro ogni squadra, senza mai perdere la nostra identità. Una delle frasi che mi è rimasta più impressa l’ha detta prima di una trasferta a Milano: “ tanto un gol lo prendiamo, preferisco perdere attaccando che difendendo”. Un precursore della modernità. Ci infondeva grande fiducia. Nei due anni precedenti all’impresa dello scudetto facemmo un quarto e un sesto posto e due finali di Coppa Italia. Con gli acquisti di Briegel ed Elkjaer facemmo il salto di qualità decisivo. A Capodanno a mezzanotte mi alzai e dissi: “o quest’anno o mai più”. L’istinto mi ha portato a cimentare e alimentare ancora di più quel sogno, ma la parola scudetto non veniva ancora nominata. Il clima nel nostro spogliatoio fece la differenza, la voglia di lottare su ogni pallone, di aiutarsi a vicenda. Si era creata un’alchimia degna delle migliori famiglie. Bagnoli è stato un grande psicologo.
Abbiamo davvero iniziato a crederci dopo la partita contro la Juve a Torino, perdevamo e siamo riusciti a rimontare. Eravamo una grande famiglia, tutti uniti e con lo stesso obiettivo, la società, i giocatori e i tifosi. Anche i giornalisti ne facevano parte, entravano negli spogliatoi. Il sabato c’era il mercato e passavo in mezzo alle bancarelle fra i tifosi. Abbiamo rappresentato l’ultima poesia di un calcio che stava cambiando.
Quindi, secondo lei, nel calcio moderno le vostre gesta non sono replicabili?
Il destino del Verona è quello di lottare, di salvarsi il prima possibile o al massimo di fare dei buoni campionati come quelli con Juric e Tudor. Ricordiamo che è stato anche in serie C. I nostri anni hanno portato grande euforia e ci hanno lanciato sulla luna, ma poi bisogna tornare a fare i conti con la realtà. Però è importante che dietro al business rimanga la pietra miliare della passione sperando che questa porti la squadra a essere all’altezza facendo dei buoni campionati.