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VIGHINI | Il destino del Verona nelle mani di Vincenzo Italiano, "butel" da sempre

Dicono che le vie del calcio sono infinite. Che gli incroci, le strade, le vite, le carriere non finiscono mai di trovarsi, scontrarsi, ritrovarsi, incrociarsi. Quella di Vincenzo Italiano è da sempre una vita gialloblù. Nel bene e nel male. Nella buona e nella cattiva sorte. Una storia d'amore bella, pulita e poi come da dramma del genio inglese che a Verona dedicò delle pagine, tormentata, sofferta, difficile. Italiano il predestinato. Una carta assorbente. Finiva gli allenamenti e prendeva appunti. Prandelli, Malesani ma anche Gigi Cagni. Segnava tutto su un quadernetto, il bene e il male, quello che gli era piaciuto e quello che non avrebbe fatto. Uomini, situazioni, didattica, filosofia. Italiano immagazzinava tutto perché sapeva che il suo posto era sempre là nello spogliatoio, anche quando avrebbe finito la carriera da calciatore.

Sia ben chiaro: carriera ampiamente sottostimata. Vincenzo è stato uno dei migliori play di una certa era pallonara. Poteva arrivare più su, molto più in alto. Visione profonda, lancio millimetrico, una catapulta umana che cambiava fronte di gioco, visioni, opportunità. Malesani lo usò per “ingannare” Delneri e il suo fuorigioco, quello del primo Chievo che nessuno ci capiva niente. Palla coperta, palla scoperta, Ita che lanciava di prima, spalle alla porta e alla linea avversaria, gli esterni che entravano con gli occhi bendati perché sapevano che il pallone sarebbe comunque arrivato là, dove volevano. Telecomandato come un drone Dji, prima che inventassero i droni e Sarri riprendesse gli allenamenti dal cielo.

Italiano predestinato. Parte dal basso, con umiltà. Arzignano dove si vedono idee in abbondanza. Gigi Fresco: “L'ho battuto. Loro hanno fatto la partita, noi i gol”. Ma lui ha fatto la partita. Ecco l'idea. Fare sempre e comunque la partita. La Virtus vince quella volta lì, ma poi è Italiano che vince sempre. A Trapani, a Spezia, a Firenze. Vince in ogni categoria con squadre modeste. 

Fare la partita, anche a costo di prendere tanti gol. Alzare gli esterni, incrociare i mediani. Aggressione alta, ritmo. Cura del dettaglio. A Firenze, incontentabili, gli tirano addosso qualche critica. Un po' ingrati. Ita che è permaloso, la soffre. Ogni tanto al Franchi si gira e parla con il pubblico. “Ma che volete, più di così?”.

Verona è la sua ferita. Se ne andò perché quella società così aveva deciso. Bisognava fare cassa e lui era la riserva aurea. Se ne sarebbe andato? Manco per sogno. Per lui era: “Verona tutta la vita”. Infatti scelse il Chievo, per non andarsene, forse ignorando che c'era più rivalità sotto la cenere di quello che lui immaginava. Ma traditore no. Quello gli dà ancora fastidio. Traditore no. Tanto che gli venne un sussulto il giorno che Setti e D'Amico lo chiamarono per sostituire Juric. “Ma poi che vengo a fare? Il calcio di Juric?”. E disse no. Perché le sue idee non erano quelle e giustamente il suo calcio era diverso. Non si trovarono su quel punto, ma se lo dissero in faccia, senza problemi. D'Amico virò su Di Francesco che invece, sbagliando, disse che avrebbe ricalcato il calcio del croato. E Italiano andò alla Fiorentina. Butei, fradei, in fondo. 

Eccoli i fradei, domenica di nuovo sulla stessa strada. Come a Reggio Calabria, dopo lo spareggio quando Ita prese in mano un tondino di ferro e minacciò chi voleva far irruzione nello spogliatoio dell'Hellas: “Fate ancora un passo e ve lo spacco in testa”. Ma anche dopo Piacenza, (era il 5 maggio, terribile coincidenza) quando affranto uscì dallo stadio e decise che aveva un debito con Verona. 

Vincenzo, guarda la vita, ha in mano adesso il destino del Verona. Se la giocherà, come sempre. Ma magari è la volta che quel debito, a distanza di anni viene saldato. Guardando la Curva, la sua Curva, la sua gente, i suoi tifosi, non potrà non pensarci.